martedì 26 luglio 2011

Farewell Herr Direktor

Il male si è impossessato di te, del tuo corpo... ti si è avvinghiato addosso come l'edera e ha finito per sopraffarti. Hai lottato... nessuno lo sa meglio di te. Eri ancora legato a questa vita, avevi ancora tante cose da portare a termine, tanti traguardi da raggiungere e veder raggiungere, tanti sorrisi da dispensare e ricevere, ma non ce l'hai fatta.
Mi sento come un fiume in piena, avrei tante cose da scrivere, ma non riesco a mettere ordine nei miei pensieri. Ti ricordo ancora quando, quel giorno di neanche due mesi fa, sono venuti a prenderti a casa per portarti alla consueta festicciola organizzata dalla RSU per la Festa delle Donne, quelle donne che ti piacevano tanto, anche se sul lavoro eri un po' (un bel po') sessista. Le donne che danno un tocco di grazia ad un ambiente a predominanza maschile, che sono lì ad elargire parole e gesti cortesi, le donne un po' mamme, un po' mogli, un po' figlie ed un po' amanti... quanto mi faceva imbestialire questa mentalità retrograda e sciovinista! Non ci prendevamo molto sotto questo aspetto, vero Herr?
Quel giorno sei arrivato, tenendoti faticosamente col bastone, poco dopo ti si sarebbe rivisto solo in carrozzella... ormai il dolore alle metastasi ossee si stava facendo incontrollabile, ma tu hai voluto venire lo stesso, tu che non eri venuto MAI a queste festicciole che la RSU voleva dedicarci, in quella stanza della sede sindacale dove fanno bella mostra di sé le bandiere dei sindacati metalmeccanici, la stampa del 4° Stato di Pellizza da Volpedo e la gigantografia del Che... sarebbe stato sconveniente! Ma questa volta hai voluto farci una concessione, e soprattutto hai voluto farla a te stesso, poterti circondare ancora una volta, chissà? forse l'ultima, delle tue donne.
Alla fine delle parole, dei brindisi, dei sorrisi donati generosamente al flash del fotografo, mi sono avvicinata a te e ti ho stretto in un abbraccio forte. Sentivo di dovertelo dare, sentivo che tu ne avevi bisogno, per trarre ancora la forza necessaria per esorcizzare, e magari sconfiggere, il male che ti stava corrodendo da dentro. Di te non v'era già più alcuna traccia dell'uomo asciutto, ma tonico, di qualche tempo prima... eri consumato, spigoloso, fragile e delicato come una bambola di porcellana. Ho sperato tanto che ce la potessi fare... si sa che la speranza è l'ultima a morire.
E tuttavia è morta anche lei, la speranza, con quella telefonata che ho ricevuto ieri sera mentre mi preparavo la cena.
"Ho voluto chiamarti appena l'ho saputo, per non farti trovare la brutta sorpresa domani mattina al tuo arrivo al lavoro."
"Grazie, hai fatto bene. Se c'è una consolazione che si può trarre da situazioni come questa, è la consapevolezza che almeno ha smesso di soffrire."
Ma sarà dura soffermarsi a pensare che non ci sei più, che non ti rivedremo mai più seduto alla tua scrivania nel tuo ufficio spazioso e luminoso, che non ti rivedrò mai più la mattina, io che arrivo tutta trafelata per non strisciare in ritardo il badge, mentre tu sei fuori ad ossigenarti i polmoni con la 3a? la 4a? la chissà quale sigaretta della giornata, insieme con gli altri fumatori pronti a sfidare il gelo, la pioggia o la caligine afosa, pur di non rinunciare a quei 5 minuti di "salute".
Non ti ho mai visto come un personaggio carismatico... senz'altro tecnicamente preparato, ma decisamente poco manageriale, addirittura incline a scatti di collera molto poco diplomatici. Più di una volta, durante i tuoi discorsi al personale, ho avuto come l'impressione che i panni del "gran capo" ti stessero troppo stretti, che le responsabilità di quel ruolo ti pesassero come un macigno e che tutto sarebbe stato molto più facile se avessi potuto essere ancora "uno di noi", allegro, spassionato, spensierato e senza i timori di chi si sente fuori posto sotto la luce dei riflettori. Eppure, sotto la tua direzione, la nostra azienda ha vissuto dei bei momenti di gloria, forse proprio perché eri uno che badava più alla "sostanza" delle cose piuttosto che all'"apparenza".
Avevi 57 anni... pochi, troppo pochi per te che amavi così tanto la vita.
Addio Herr Direktor! Anche se non si può dire che le nostre personalità collimassero, sentirò la tua mancanza. Spero che ti trovi bene, ovunque tu sia in questo momento. E comunque, meglio di quanto tu sia stato in questi ultimi logoranti, dolorosi, maledetti mesi.

lunedì 18 luglio 2011

06-06-1906

La data di nascita dello zio Peppino è una di quelle che non si dimenticano: 06.06.1906. Noi figli e i nipoti lo sfottevamo sempre: dicevamo che era l'anticristo, e lui diventava rosso per la rabbia e per tutta risposta urlava "anticristo chi? anticristo IIIOOOOO!!! ma voi siete pazzi!!! Vorrei vedere se al mondo esiste qualcuno più devoto e religioso di me... FORSE NEMMENO IL PAPA!!! Ma va va, andatevelo a prendere in saccoccia..." e se ne andava in un'altra stanza per porre fine alla discussione, e noi giù a ridere come pazzi per averlo "mandato in cascetta"! Ovviamente anche lui sapeva che lo stavamo prendendo in giro, ma diciamo che era particolarmente sensibile a certi argomenti, per cui mancava totalmente di "sense of humor".
La verità è che lo zio Peppino era quel che si dice "un uomo d'altri tempi". Un uomo che aveva vissuto due guerre, di cui una da sfollato con moglie e figli piccoli al seguito. A 18 anni, appena conseguito il diploma di perito meccanico, iniziò a lavorare in quella che era allora la più importante fonderia della regione, e lì lavorò fino al 1977, quando finalmente decise che era ora di andarsene in pensione, alla ragguardevole età di 71 anni! Era un uomo di un ingegno superiore alla media e con la caparbietà di un ariete. Era in grado di portare a termine qualsiasi compito di cui si fosse fatto carico, anzi, non si dava pace finché non l'aveva ultimato. Per lui tutto era una sfida e non si è mai fatto mettere in ginocchio da nulla: era lui che doveva avere il controllo degli eventi, e non viceversa.
La sua vita non fu priva di difficoltà, come per la maggior parte delle persone che dovettero vivere la ricostruzione del paese dopo la II grande guerra, ma lui non si è mai scoraggiato, ed ogni volta si è sempre rimboccato le maniche ed è andato avanti, non mancandogli mai il sostegno del suo carattere forte e del carattere altrettanto forte della moglie, una grande donna come solo un grande uomo merita di avere.
Non sempre era facile ragionare con lui: era un uomo all'antica, tetragono nei suoi forti ideali e sani principi, amante delle proprie opinioni al punto da liquidare ogni opinione avversa agitando con decisione la mano e scuotendo la testa con condiscendenza, come a dire "sì sì, continua a pensarla così tu, che non arriverai mai da nessuna parte!" Ogni suo pensiero era frutto del suo senso pratico e rifiutava tutti i sofismi.
La sua pignoleria alle volte era esasperante: aveva i suoi riti quotidiani che non mancava mai di espletare: in piedi presto la mattina, il caffé a letto alla moglie, l'uscita per andare al lavoro, il ritorno per il pranzo, la mezz'oretta di "pennica" prima di tornare al lavoro, il ritorno a casa nel tardo pomeriggio, il resto della serata prima di cena dedicato ai lavori di utilità domestica o alla contabilità, il tutto sempre alla stessa ora e con le stesse modalità. Se avesse avuto la responsabilità di gestire le Ferrovie dello Stato, nessuno avrebbe mai saputo cosa fosse un treno in ritardo!
Ad ogni cosa il suo posto: i pantaloni perfettamente ripiegati e appesi alle loro grucce nell'armadio (non era di quegli uomini che lasciano alle mogli il compito di rimettere in ordine i loro vestiti), le carte e i documenti tenuti con l'ordine del più meticoloso degli archivisti, i suoi attrezzi da lavoro conservati con una cura maniacale... se chiedeva ad uno di noi di andare nel suo studio a prendergli un cacciavite, e noi gli chiedevamo dove stava, lui ci spiegava esattamente come orientarci nella stanza per trovare quello che stavamo cercando, e 12 volte su 10 la trovavamo perché, sicuro come la morte, quell'oggetto era proprio lì come ci era stato spiegato, e lì sarebbe tornato, non un millimetro più in qua o più in là!
Era abile in tutto: lavori di falegnameria, riparazioni elettriche, idrauliche, meccaniche, lavori da muratore, gestione dei risparmi e contabilità... qualsiasi cosa si fosse messo in mente di fare, la faceva con la maestria di un professionista e ogni lavoro compiuto non aveva nulla da invidiare a quello che avrebbe potuto fare uno specialista del settore. Finché è vissuto, praticamente non è mai stato necessario chiamare un esterno per le riparazioni in casa: a tutto metteva mano e tutto sistemava, orgoglioso per aver vinto un'altra sfida e... per aver risparmiato i soldi della parcella del tecnico!
Ma l'orgoglio suo più grande fu quando venne insignito della Stella di Maestro del Lavoro. Quest'onoreficenza aveva per lui un valore incommensurabile, perché testimoniava la sua grande dedizione all'attività che, secondo lui, più di ogni altra fa grande una persona. Per lui era essenziale la distinzione tra l'essere "Cavalieri del Lavoro" e "Maestri del Lavoro", perché sardonicamente ripeteva sempre che ai primi veniva riconosciuto il merito di aver saputo sfruttare il lavoro altrui, mentre i secondi sono quelli che col sudore della loro fronte trasformano in realtà i sogni degli sfruttatori. E tanto per evitare malintesi, lo zio Peppino non era un uomo di sinistra, però era dotato di un grande senso di equità sociale.
Generoso oltre ogni misura, era sempre pronto a mettere la mano al portafogli per finanziare una giusta causa. Contribuì in larga misura alla raccolta di fondi per la costruzione della chiesa della sua parrocchia, di cui non ha fatto in tempo a vedere neanche l'apertura del cantiere. E forse è stato meglio così, visto che, dopo anni di lavori continuamente interrotti, il risultato finale è solo un obbrobrioso cazzotto in un occhio, un tentativo molto mal riuscito di voler imitare la Cappella di Notre Dame Du Haut di Le Corbusier, a Ronchamp.
Se n'è andato nel novembre del '91, stroncato dalla malattia che nel giro di 2 mesi lo ha colpito e se l'è portato via. Anche la morte è riuscito a dominare, visto che per tutta la vita ha sempre ripetuto che, quando fosse arrivata la sua ora, avrebbe voluto andarsene in fretta, senza lunghi calvari e penose agonie, e così è stato.
Volendo riassumere con pochi aggettivi: grande carattere, forte temperamento, marito devoto, padre responsabile, nonno premuroso, generoso e grande lavoratore... questo era lo zio Peppe, pignolo persino nella data di nascita. Non il 5, non il 7, ma il 6-6-06, perché fosse chiaro da subito a tutti che la parola "approssimazione" era inesistente nel suo vocabolario.

lunedì 11 luglio 2011

Angela

Oltre venticinque anni fa, nell'azienda dove lavoro, arrivò una nuova centralinista. Il suo nome era Angela, si era da poco diplomata alle magistrali ed era alla sua prima esperienza di lavoro "serio". Era una ragazzina giovane giovane, piccola e magra da far paura, dall'aspetto un po' dimesso. La pelle diafana, il viso privo di qualsiasi traccia di trucco, un sorriso timido, i capelli lisci come spaghetti e un abbigliamento alla moda, ma indossato con la noncuranza di chi poggia gli abiti smessi della giornata sull'"uomo morto". Non che non fosse curata nell'aspetto, solo che lo era con la negligenza di chi non si preoccupa di essere giudicata per la sua apparenza esteriore. E infatti, a guardarla non le avresti dato un soldo bucato, ma se poi ti fermavi a scambiare quattro chiacchiere con lei durante la pausa caffé o a pranzo a mensa, scoprivi una sensibilità e un intelletto del tutto inaspettati. Aveva una incredibile capacità di percezione psicologica ed era in grado di ritagliarti un profilo della tua personalità che persino tu ignoravi, con la stessa precisione con cui una sarta ritaglia un cartamodello.
Due erano le cose che più le piacevano nella vita: i bambini e i gatti. Per questi ultimi aveva sempre pronta una ciotola di cibo, di latte o acqua, una carezza, tanto che i colleghi non lesinavano gli sfottò alle sue spalle. "La gattara" la chiamavano, ma con l'ironia tipica di chi non sa quanto possano essere consolatori gli strusciamenti e le fusa di un gatto di cui hai saputo conquistare la fiducia.
Un giorno anch'io mi trovai fatalmente a parlare con lei di gatti. A quel tempo sostenevo con fermezza e convinzione di non sopportarli. "Sono diffidenti, egoisti ed opportunisti" continuavo a ripetere, secondo un pregiudizio fin troppo diffuso tra coloro che mai hanno avuto l'occasione di dividere il loro spazio con un felino domestico. "Per carità! non farei mai del male ad un gatto e condanno chi gliene fa, però loro per la loro strada ed io per la mia!"
"Tu non odi i gatti", mi rispose Angela, ed io, con un sorriso tra il sardonico e divertito, "ah no? e che ne sai?"
"Perché all'origine del tuo senso di repulsione, o di quello che credi sia un senso di repulsione, in realtà c'è la teoria dei poli simili che si respingono."
"E cioè, cosa vorresti dire? che i gatti mi sono antipatici perché sono come loro?!?"
"Brava! è esattamente ciò che intendo!"
Me ne andai sorridendo e scuotendo la testa per quel maldestro tentativo di introspezione psicologica, provando anche una punta di commiserazione per quella ragazzina che credeva di saperla lunga su una persona con cui non aveva scambiato più di poche parole tra un piatto di rigatoni al sugo e una porzione d'insalata. Non parlammo mai più di gatti, ma la verità fu che quella frase pronunciata da Angela mi lasciò un marchio impresso a fuoco sul cervello.
Il tempo passò, e un bel giorno Angela venne nel mio ufficio. "Sto facendo il giro di tutti i colleghi per salutarvi: ho dato le dimissioni. Ho vinto il concorso magistrale e finalmente vado a fare il lavoro per cui ho studiato tanto, e starò coi bambini, come ho sempre sognato!" e mentre lo diceva, aveva una luce particolare che le brillava negli occhi e un sorriso luminosissimo: era felice, e quella felicità quasi la trasfigurava e la faceva sembrare una persona diversa, più serena e ottimista. L'abbracciai e le augurai ogni bene, e quella fu l'ultima volta che ci vedemmo. Ma le parole di Angela continuarono a risuonare nella mia testa come le note basse dalle casse di uno stereo, finché un bel giorno non mi soffermai a pensare. "Diffidente? bé sì, un po' lo sono, di tutto ciò che è nuovo e finché non mi sento a mio agio... e d'altronde, chi non lo è, almeno un pochino? Solo gli incoscienti! Egoista? naaaaaa... è solo che quando mi va di starmene per i fatti miei, preferisco che gli altri mi lascino in pace! Opportunista? certo, dove c'è da prendere, prendo a piene mani, soprattutto da chi ha da offrirmi sapere, saggezza e buon senso, ma a chi si mostra generoso con me metto a disposizione con altrettanta generosità tutta la ricchezza interiore che possiedo, che non sarà tantissima, ma è sempre più di niente."
E fu così che incominciai a guardare i gatti con occhi diversi: diffidenti finché, con pazienza e caparbietà, non riesci a conquistare la loro fiducia; amanti gelosi dei loro spazi e dei loro momenti di isolamento; sempre alla ricerca di un po' di cibo e una carezza, ma pronti a mostrarti la loro gratitudine saltandoti in grembo o leccandoti il naso mentre stai a dormire. Dopotutto Angela aveva ragione: in fondo, anche io sono un po' gatta e allora, siccome ogni regola ha la sua eccezione, finalmente misi da parte la mia antipatia per i gatti che, come capii in seguito, non era un'antipatia che mi sgorgava dal cuore, ma era stata costruita con tutti i pregiudizi di cui mi avevano riempito la testa, e iniziai con loro un nuovo rapporto di beneficio reciproco: non più "poli simili che si respingono" ma, in barba a tutte le leggi della fisica, che si attraggono per non staccarsi più!
Mi chiedo oggi che fine abbia fatto Angela. Vorrei tanto incontrarla di nuovo, innanzitutto per dirle che aveva ragione, e poi per chiederle se è felice e se le piacciono ancora tanto i bambini e... i gatti! Chissà, forse un giorno mi metterò alla sua ricerca e la chiamerò... quella piccola ragazzina insignificante, ma con una grande capacità di scrutare dentro le persone!