lunedì 14 gennaio 2013

The Big C

Le persone con gli angoli della bocca perennemente rivolti all'ingiù mi fanno una gran pena: chissà che fatica dev'essere per loro sorridere!
 

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Giorni fa ero in ospedale, al laboratorio analisi per fare il consueto prelievo di sangue per il controllo annuale.
C'era una quantità abbastanza insolita di pazienti, veramente non era mai accaduto che trovassi una tale ammucchiata e, se non fosse stato perché ormai ero uscita di casa a digiuno e non mi andava di fare un altro digiuno il giorno dopo - che io quando devo uscire la mattina senza caffé e senza colazione, mordo - avrei girato i tacchi e me ne sarei andata.
Invece, buona buona, ho preso il numeretto per la fila all'accettazione, dove mi avrebbero dato un secondo numeretto per la chiamata in sala prelievi. La prima fila è stata abbastanza veloce... sì, 'nZomma, veloce quanto può esserlo una fila di 41 numeri prima di me. La seconda attesa, invece, è stata ben più lunga e snervante.
Col numero subito dopo il mio c'era una signora visibilmente disorientata, estranea al luogo e alle procedure, abbastanza petulante e comunque, vogliosa di attaccar bottone con qualcuno (cosa di cui io, privata di cibo e caffeina, non avevo sicuramente voglia). In ogni caso, espletate le formalità all'accettazione, andiamo a sederci nell'affollata sala d'attesa, la signora alla mia destra, a poche sedie di distanza da me.
Dopo un po' sento, e con la coda dell'occhio vedo, che risponde ad un signore accomodato alle sue spalle. A giudicare dal tono di confidenza, presumibilmente il marito, che le aveva chiesto in modo irritato "ma un'altra fila devi fare???", gli dice in pratica che sì, a quanto pare è così che funziona: due file, una per l'accettazione, e l'altra per il prelievo. Tanto valeva che si mettesse l'anima in pace e aspettasse pazientemente che arrivasse il suo turno.
Incuriosita, giro la testa per vedere in faccia questo signore così impaziente ed irritabile e... guarda guarda chi è!!! Ma nientemeno che The Big C, l'ex-direttore di stabilimento di quell'importante azienda, N° 2 nell'organigramma, di fatto N° 1 per potere, sia dentro che fuori dall'azienda.
Imponente, con l'aria da padreterno, severo e imperioso, nient'affatto incline al dialogo se non strettamente di carattere professionale, forse giusto un tantino di più coi suoi pari in grado, ma comunque sempre per rimarcare che tra lui e loro c'era una barriera invalicabile. Il classico dirigente della vecchia scuola insomma, quello che neanche ti guarda dall'alto verso il basso, ma che non ti vede proprio, se non per chiederti qualcosa che gli serve adesso! subito! o per cazziarti.
A quei tempi, caro Big C, quando eri qualcuno, quando contavi qualcosa, bastava che qualcuno pronunciasse il tuo nome che ti si aprivano tutte le porte, venivi accolto con deferenza e accontentato in tutte le tue richieste. Quando arrivavi in qualsiasi posto, ma soprattutto nel posto di lavoro, calava il silenzio. La tua posizione ti dava dei privilegi che neanche ci si poteva immaginare, e tanto si è fantasticato su come ti sia fatto la villa ai colli. Scommetto che a quei tempi neanche sapevi cosa significasse "fare la fila"... neanche immaginavi che "fare la fila" fosse una pratica comune a tutti i comuni mortali, perché tu non eri comune, e forse non ti credevi nemmeno mortale.
Ma ora sei pensionato. Vecchio, anche se ancora ben conservato, brontolone e... inutile. Il tuo potere di un tempo ora è in mano a qualcun altro, e tu conti come il due di coppe quando la briscola è a denari.
E' seccante fare la fila al laboratorio analisi dell'ospedale, vero? anzi, che dico? DUE file! una all'accettazione e una per il prelievo. Nessuno che ti conosca, che ti osanni, che ti si prostri dinanzi aprendoti una porta secondaria per farti scavalcare tutta quella fila umana di miserabili mortali che seguono le trafile dei miserabili mortali.
Brutta cosa la perdita del potere.
Embé, Big C, che ci vuoi fare? così va la vita... pure Napoleone è stato due volte nella polvere, due volte sull'altare. Almeno a te non t'hanno mandato in esilio a Sant'Elena!
E comunque, mi fai sempre una gran tristezza, con quella bocca con gli angoli sempre rivolti ingiù, oggi ancor più di allora, quando il broncio scolpito serviva a far sentire ancora di più la distanza che ponevi tra te stesso e il resto del mondo.
Oggi, è per il disappunto di dover essere uno qualunque, costretto a fare le file come il resto del mondo.

mercoledì 18 aprile 2012

People on my mind: le vittime di quella strage senza colpevoli

E' di pochi giorni fa la sentenza che ha confermato l'assoluzione, da parte della Corte d'Appello, degli imputati della famosa strage di Brescia, l'attentato terroristico che ebbe luogo il 28 maggio 1974 a Piazza della Loggia.
La strage è rimasta impunita, le vittime sono state uccise per la seconda volta.
Le nomino qui, una per una, tutte le 8 vittime, forever on my mind:
  • Giulietta Banzi Bazoli, anni 34, insegnante
  • Livia Bottardi Milani, anni 32, insegnante
  • Euplo Natali, anni 69, pensionato
  • Luigi Pinto, anni 25, insegnante
  • Bartolomeo Talenti, anni 56, operaio
  • Alberto Trebeschi, anni 37, insegnante
  • Clementina Calzari Trebeschi, anni 31, insegnante
  • Vittorio Zambarda, anni 60, operaio

giovedì 11 agosto 2011

Mirco

Mi sono appena destata da una di quelle circonvoluzioni della mente che in genere hanno inizio con un pensiero e poi, in seguito a tutta una serie di concatenazioni più o meno logiche, finiscono per portarti da tutt'altra parte, per infine ricongiungersi al punto di partenza. Insomma, uno di quei voli pindarici totalmente assurdi che capitano quando ti abbandoni del tutto liberamente al flusso etereo di riflessioni e ricordi.
Ed è così che uscendo da una vasca piena d'acqua profumata, dove ho trascorso in piacevole rilassatezza quest'ultima ora di un pomeriggio caldo-ventilato di luglio, pensando che sarebbe saggio imparare a fare meno docce mordi-e-fuggi e più bagni lasciati-andare-alle-coccole-e-fregatene-dell'orologio, che mi è tornato in mente Mirco.
Lo so che non è etico fare il nome vero di persone reali su internet senza avere prima il loro consenso, ma io sono sicura che Mirco non se ne avrebbe a male, perché di lui non si può dire nulla che non sia positivo, nonostante fosse tutt'altro che un santo con l'aureola. Mirco Sciascia, detto anche lu Sciascion', è stato un collega che ha lavorato con noi da verso metà fino a fine anni '80 circa, ma in realtà è stato ben più di un collega. Lui è stato un compagno di magnate e di bevute, di serate trascorse in montagna ad ululare alla luna, con le bottiglie di vino che passavano di mano in mano... "no no, basta, ti prego!"
"E jamme signurì, e fatte 'n'atre guccett'"
"Ma così mi ubriaco!"
"Embé? e che l'ha da guida' tu la machine?" (machine da pronunciare così com'è scritto, non in inglese!)
Da questo siparietto in dialetto abruzzese, probabilmente si penserà che Mirco fosse un addetto della produzione, una persona di scarsa cultura con un diploma di terza media strappato con lacrime e sangue (dei genitori, non suoi!). E invece no, Mirco Sciascia era (ed è tutt'ora, dato che comunque è ancora vivo e vegeto) un ingegnere, ed anche molto brillante, che in azienda faceva il venditore... e non di noccioline! Però lui si era ritagliato questo personaggio tutto suo di popolano schietto e 'gnurant', di contadino scarpe grosse e cervello fino, di abruzzese forte e gentile. Ed era un personaggio che gli calzava a pennello... vederlo indossare i panni del venditore professionista, che doveva convincere un cliente che tirare fuori qualche miliardata di lire per una nostra linea di produzione sarebbe stato il miglior affare della sua vita, ci faceva un effetto strano, perché noi conoscevamo il Mr. Hyde che si nascondeva dentro di lui, e ci piaceva, ma da morire ci piaceva, molto più del Dr. Jeckyll della facciata istituzionale!
Le serate passate con lui erano impagabili, altro che cabaret! Quando si andava a cena tutti insieme, era di rigore andare prima "a lu bar" a farsi il Campari, e chiudere la cena "nghi nu Jegermasctr" (Jaegermeister, n.d.t.). Mirco aveva una teoria, secondo cui il vero alcolista lo si riconosce dalle quantità di vermouth bianco e limoncelli che si beve, e non dai superalcolici... teoria molto insolita, formulata forse più per negare il fatto che fosse lui stesso un alcolista. E forse alla fine non era vero affatto che lo fosse, perché comunque trascorreva molte ore della giornata in assoluta sobrietà e lucidità di mente. Io credo che tutto sommato fosse solo un gran bevitore con una capacità quasi sovrannaturale di reggere quantità stratosferiche di alcool.
Si tornava a casa con le mascelle doloranti per il gran ridere, e più il vino andava giù, più le risate aumentavano. E non c'erano scuse per smettere di bere... l'unica tolleranza consentita era verso chi doveva guidare, perché Mirco era fuori di testa, ma non era stupido. Anche lui doveva guidare, ma di certo non era intenzionato a rinunciare a bere, per cui lui non portava passeggeri. Se, tornando a casa a tarda-notte-quasi-mattina, si rendeva conto di non essere in grado di tenere la strada, accostava al ciglio e si addormentava in auto. Quante mattine l'abbiamo visto arrivare in ufficio con le occhiaie e la barba lunga di una notte. Andava a darsi una rinfrescata veloce in bagno e prendeva posto alla sua scrivania, non senza sospirare profondamente, perché "quant'è faticos' a guadagnarsi lu pan'!" Intemperanze tante, incoscienza mai.
E durante le nostre bevute ci raccontava le storie, molte vere, molte altre inventate, e altre ancora una mescolanza delle due cose. Racconti popolati da personaggi del nostro folclore locale, paesani che s'incontravano al bar per la partitella di  tressette col quarto e 'na gazzosa, contadini e contadinotte al lavoro nei campi, pastori in transumanza, montanari, manovali, sacerdoti, perpetue e chierichetti. Tutte persone rigorosamente del popolo, semplici e genuine, lavoratori e compagnoni, alcuni fessacchiotti, altri ben più furbi e scafati. Un caleidoscopio di varia umanità, ma sempre caratterizzato da umorismo, perché l'obiettivo delle nostre serate insieme era uno solo: l'allegria.
"Picché signurì, a lu tempe che 'ngi steje li trattur' motorizzate..."
"Mirco... Concetta, mi chiamo Concetta, no signurì!"
"Scì... Concetta... so capite... allora, signurì, ti stev' a ddice..."
Era inutile insistere, lui sapeva perfettamente quale fosse il mio nome, e anche quello delle altre donne, ma noi eravamo tutte signurì, perché è così che si usa tra i paesani, ed era questo colore locale che permeava sempre tutti i suoi discorsi e comportamenti.
Una delle cose che maggiormente mi facevano ridere, era quando raccontava a qualcuno quali fossero le distinzioni tra un settentrionale e un centro-meridionale... "picché tu ha da sape', ca a lu nord, lu milanese lavora... invece a lu sud se fatije. Li sind' la differenze? Lavorare, pare quasi 'na fest'... fatijà invece... già sol' a pronuncià la parole j'é pesand', te pare già de sta a vede' lu sudor' 'mbacce a la frond'!"
Ma ancor più di questo mi faceva divertire la sua distinzione tra farsi la doccia e farsi il bagno... e finalmente si torna al nocciolo della questione! Per lu Sciasion', il nord è la doccia, mentre il sud è il bagno. Perché al nord non si ha tempo da perdere, perché al nord è tutto accelerato, il traffico è accelerato, i ritmi sono accelerati, persino il tempo è più accelerato che al sud, e allora non puoi sprecarlo in una vasca da bagno... devi fare la doccia, 'na botta e via! Al sud invece il tempo si dilata, ma soprattutto sono le persone che non si lasciano irretire dalle corse veloci contro il tempo... quello che non ti va di fare subito lo fai dopo, dov'è il problema? Perché farsi una doccia di corsa, quando puoi startene ammollo un'ora nell'acqua profumata con essenze oleose?
Certo, è un cliché, con cui forse molti della Lega Nord si troverebbero anche d'accordo, e di sicuro a Mirco non gliene fregherebbe una cippa di quello che pensa la gente della Lega, anche perché si tratta sì della stessa visione, ma che si originano in maniera opposta, e non serve sottolineare quale delle due origini preferisco.
Comunque, volendo concludere tutto questo po' po' di sproloquio, ho deciso che voglio fare mia la filosofia di vita di lu Sciascione, e voglio imparare a concedermi più tempo per farmi un bagno nella vasca, per rilassarmi, per coccolarmi, perché io sono un'operosa donna del sud, che rincorre il tempo, ma che sa anche quando è il momento di fermarlo ;-)

PS: non ho più visto Mirco da maggio 2008, quando ci siamo rivisti al funerale di una persona che ci ha profondamente segnato. In quell'occasione ovviamente non ci fu spazio né per le bevute, né per le risate, però so da altri che sebbene lu Sciascione abbia messo la testa a posto e sia diventato papà, in realtà non ha perso del tutto le "buone" abitudini, per cui ancora oggi le sbevazzate si susseguono copiose... chissà se la vita ci ha riservato ancora un'ultima sbevazzata insieme?

martedì 2 agosto 2011

Farewell Herr Direktor... il mio ricordo di te, 3 anni dopo

5 maggio 2008 - 5 maggio 2011

A distanza di tre anni, ecco come ti voglio ricordare, come voglio ricordare il tuo "ultimo carnevale", senza santificarti e nemmeno beatificarti, perché eri semplicemente un uomo, splendido nella tua limitatezza di essere umano. Un simpatico bastardo, maschilista e sciovinista, l'unico che conoscessi che fosse in grado di intercalare una bestemmia e 2 parolacce ogni 3 parole che pronunciava. L'unico che con un sorriso ti sapeva comunicare un universo di calore umano, un sorriso che compensava il non saperci fare con le parole, perché tu non eri un uomo di chiacchiere.
Buffo il destino, come anche nella data della tua dipartita, ti abbia associato ad un grande condottiero... buffo e significativo, perché in fondo tu eri così, grande nella tua limitatezza di essere umano.
'fankulo herr, mi manchi :'( ...



The Last Carnival (Cover), Bruce Springsteen

martedì 26 luglio 2011

Farewell Herr Direktor

Il male si è impossessato di te, del tuo corpo... ti si è avvinghiato addosso come l'edera e ha finito per sopraffarti. Hai lottato... nessuno lo sa meglio di te. Eri ancora legato a questa vita, avevi ancora tante cose da portare a termine, tanti traguardi da raggiungere e veder raggiungere, tanti sorrisi da dispensare e ricevere, ma non ce l'hai fatta.
Mi sento come un fiume in piena, avrei tante cose da scrivere, ma non riesco a mettere ordine nei miei pensieri. Ti ricordo ancora quando, quel giorno di neanche due mesi fa, sono venuti a prenderti a casa per portarti alla consueta festicciola organizzata dalla RSU per la Festa delle Donne, quelle donne che ti piacevano tanto, anche se sul lavoro eri un po' (un bel po') sessista. Le donne che danno un tocco di grazia ad un ambiente a predominanza maschile, che sono lì ad elargire parole e gesti cortesi, le donne un po' mamme, un po' mogli, un po' figlie ed un po' amanti... quanto mi faceva imbestialire questa mentalità retrograda e sciovinista! Non ci prendevamo molto sotto questo aspetto, vero Herr?
Quel giorno sei arrivato, tenendoti faticosamente col bastone, poco dopo ti si sarebbe rivisto solo in carrozzella... ormai il dolore alle metastasi ossee si stava facendo incontrollabile, ma tu hai voluto venire lo stesso, tu che non eri venuto MAI a queste festicciole che la RSU voleva dedicarci, in quella stanza della sede sindacale dove fanno bella mostra di sé le bandiere dei sindacati metalmeccanici, la stampa del 4° Stato di Pellizza da Volpedo e la gigantografia del Che... sarebbe stato sconveniente! Ma questa volta hai voluto farci una concessione, e soprattutto hai voluto farla a te stesso, poterti circondare ancora una volta, chissà? forse l'ultima, delle tue donne.
Alla fine delle parole, dei brindisi, dei sorrisi donati generosamente al flash del fotografo, mi sono avvicinata a te e ti ho stretto in un abbraccio forte. Sentivo di dovertelo dare, sentivo che tu ne avevi bisogno, per trarre ancora la forza necessaria per esorcizzare, e magari sconfiggere, il male che ti stava corrodendo da dentro. Di te non v'era già più alcuna traccia dell'uomo asciutto, ma tonico, di qualche tempo prima... eri consumato, spigoloso, fragile e delicato come una bambola di porcellana. Ho sperato tanto che ce la potessi fare... si sa che la speranza è l'ultima a morire.
E tuttavia è morta anche lei, la speranza, con quella telefonata che ho ricevuto ieri sera mentre mi preparavo la cena.
"Ho voluto chiamarti appena l'ho saputo, per non farti trovare la brutta sorpresa domani mattina al tuo arrivo al lavoro."
"Grazie, hai fatto bene. Se c'è una consolazione che si può trarre da situazioni come questa, è la consapevolezza che almeno ha smesso di soffrire."
Ma sarà dura soffermarsi a pensare che non ci sei più, che non ti rivedremo mai più seduto alla tua scrivania nel tuo ufficio spazioso e luminoso, che non ti rivedrò mai più la mattina, io che arrivo tutta trafelata per non strisciare in ritardo il badge, mentre tu sei fuori ad ossigenarti i polmoni con la 3a? la 4a? la chissà quale sigaretta della giornata, insieme con gli altri fumatori pronti a sfidare il gelo, la pioggia o la caligine afosa, pur di non rinunciare a quei 5 minuti di "salute".
Non ti ho mai visto come un personaggio carismatico... senz'altro tecnicamente preparato, ma decisamente poco manageriale, addirittura incline a scatti di collera molto poco diplomatici. Più di una volta, durante i tuoi discorsi al personale, ho avuto come l'impressione che i panni del "gran capo" ti stessero troppo stretti, che le responsabilità di quel ruolo ti pesassero come un macigno e che tutto sarebbe stato molto più facile se avessi potuto essere ancora "uno di noi", allegro, spassionato, spensierato e senza i timori di chi si sente fuori posto sotto la luce dei riflettori. Eppure, sotto la tua direzione, la nostra azienda ha vissuto dei bei momenti di gloria, forse proprio perché eri uno che badava più alla "sostanza" delle cose piuttosto che all'"apparenza".
Avevi 57 anni... pochi, troppo pochi per te che amavi così tanto la vita.
Addio Herr Direktor! Anche se non si può dire che le nostre personalità collimassero, sentirò la tua mancanza. Spero che ti trovi bene, ovunque tu sia in questo momento. E comunque, meglio di quanto tu sia stato in questi ultimi logoranti, dolorosi, maledetti mesi.

lunedì 18 luglio 2011

06-06-1906

La data di nascita dello zio Peppino è una di quelle che non si dimenticano: 06.06.1906. Noi figli e i nipoti lo sfottevamo sempre: dicevamo che era l'anticristo, e lui diventava rosso per la rabbia e per tutta risposta urlava "anticristo chi? anticristo IIIOOOOO!!! ma voi siete pazzi!!! Vorrei vedere se al mondo esiste qualcuno più devoto e religioso di me... FORSE NEMMENO IL PAPA!!! Ma va va, andatevelo a prendere in saccoccia..." e se ne andava in un'altra stanza per porre fine alla discussione, e noi giù a ridere come pazzi per averlo "mandato in cascetta"! Ovviamente anche lui sapeva che lo stavamo prendendo in giro, ma diciamo che era particolarmente sensibile a certi argomenti, per cui mancava totalmente di "sense of humor".
La verità è che lo zio Peppino era quel che si dice "un uomo d'altri tempi". Un uomo che aveva vissuto due guerre, di cui una da sfollato con moglie e figli piccoli al seguito. A 18 anni, appena conseguito il diploma di perito meccanico, iniziò a lavorare in quella che era allora la più importante fonderia della regione, e lì lavorò fino al 1977, quando finalmente decise che era ora di andarsene in pensione, alla ragguardevole età di 71 anni! Era un uomo di un ingegno superiore alla media e con la caparbietà di un ariete. Era in grado di portare a termine qualsiasi compito di cui si fosse fatto carico, anzi, non si dava pace finché non l'aveva ultimato. Per lui tutto era una sfida e non si è mai fatto mettere in ginocchio da nulla: era lui che doveva avere il controllo degli eventi, e non viceversa.
La sua vita non fu priva di difficoltà, come per la maggior parte delle persone che dovettero vivere la ricostruzione del paese dopo la II grande guerra, ma lui non si è mai scoraggiato, ed ogni volta si è sempre rimboccato le maniche ed è andato avanti, non mancandogli mai il sostegno del suo carattere forte e del carattere altrettanto forte della moglie, una grande donna come solo un grande uomo merita di avere.
Non sempre era facile ragionare con lui: era un uomo all'antica, tetragono nei suoi forti ideali e sani principi, amante delle proprie opinioni al punto da liquidare ogni opinione avversa agitando con decisione la mano e scuotendo la testa con condiscendenza, come a dire "sì sì, continua a pensarla così tu, che non arriverai mai da nessuna parte!" Ogni suo pensiero era frutto del suo senso pratico e rifiutava tutti i sofismi.
La sua pignoleria alle volte era esasperante: aveva i suoi riti quotidiani che non mancava mai di espletare: in piedi presto la mattina, il caffé a letto alla moglie, l'uscita per andare al lavoro, il ritorno per il pranzo, la mezz'oretta di "pennica" prima di tornare al lavoro, il ritorno a casa nel tardo pomeriggio, il resto della serata prima di cena dedicato ai lavori di utilità domestica o alla contabilità, il tutto sempre alla stessa ora e con le stesse modalità. Se avesse avuto la responsabilità di gestire le Ferrovie dello Stato, nessuno avrebbe mai saputo cosa fosse un treno in ritardo!
Ad ogni cosa il suo posto: i pantaloni perfettamente ripiegati e appesi alle loro grucce nell'armadio (non era di quegli uomini che lasciano alle mogli il compito di rimettere in ordine i loro vestiti), le carte e i documenti tenuti con l'ordine del più meticoloso degli archivisti, i suoi attrezzi da lavoro conservati con una cura maniacale... se chiedeva ad uno di noi di andare nel suo studio a prendergli un cacciavite, e noi gli chiedevamo dove stava, lui ci spiegava esattamente come orientarci nella stanza per trovare quello che stavamo cercando, e 12 volte su 10 la trovavamo perché, sicuro come la morte, quell'oggetto era proprio lì come ci era stato spiegato, e lì sarebbe tornato, non un millimetro più in qua o più in là!
Era abile in tutto: lavori di falegnameria, riparazioni elettriche, idrauliche, meccaniche, lavori da muratore, gestione dei risparmi e contabilità... qualsiasi cosa si fosse messo in mente di fare, la faceva con la maestria di un professionista e ogni lavoro compiuto non aveva nulla da invidiare a quello che avrebbe potuto fare uno specialista del settore. Finché è vissuto, praticamente non è mai stato necessario chiamare un esterno per le riparazioni in casa: a tutto metteva mano e tutto sistemava, orgoglioso per aver vinto un'altra sfida e... per aver risparmiato i soldi della parcella del tecnico!
Ma l'orgoglio suo più grande fu quando venne insignito della Stella di Maestro del Lavoro. Quest'onoreficenza aveva per lui un valore incommensurabile, perché testimoniava la sua grande dedizione all'attività che, secondo lui, più di ogni altra fa grande una persona. Per lui era essenziale la distinzione tra l'essere "Cavalieri del Lavoro" e "Maestri del Lavoro", perché sardonicamente ripeteva sempre che ai primi veniva riconosciuto il merito di aver saputo sfruttare il lavoro altrui, mentre i secondi sono quelli che col sudore della loro fronte trasformano in realtà i sogni degli sfruttatori. E tanto per evitare malintesi, lo zio Peppino non era un uomo di sinistra, però era dotato di un grande senso di equità sociale.
Generoso oltre ogni misura, era sempre pronto a mettere la mano al portafogli per finanziare una giusta causa. Contribuì in larga misura alla raccolta di fondi per la costruzione della chiesa della sua parrocchia, di cui non ha fatto in tempo a vedere neanche l'apertura del cantiere. E forse è stato meglio così, visto che, dopo anni di lavori continuamente interrotti, il risultato finale è solo un obbrobrioso cazzotto in un occhio, un tentativo molto mal riuscito di voler imitare la Cappella di Notre Dame Du Haut di Le Corbusier, a Ronchamp.
Se n'è andato nel novembre del '91, stroncato dalla malattia che nel giro di 2 mesi lo ha colpito e se l'è portato via. Anche la morte è riuscito a dominare, visto che per tutta la vita ha sempre ripetuto che, quando fosse arrivata la sua ora, avrebbe voluto andarsene in fretta, senza lunghi calvari e penose agonie, e così è stato.
Volendo riassumere con pochi aggettivi: grande carattere, forte temperamento, marito devoto, padre responsabile, nonno premuroso, generoso e grande lavoratore... questo era lo zio Peppe, pignolo persino nella data di nascita. Non il 5, non il 7, ma il 6-6-06, perché fosse chiaro da subito a tutti che la parola "approssimazione" era inesistente nel suo vocabolario.

lunedì 11 luglio 2011

Angela

Oltre venticinque anni fa, nell'azienda dove lavoro, arrivò una nuova centralinista. Il suo nome era Angela, si era da poco diplomata alle magistrali ed era alla sua prima esperienza di lavoro "serio". Era una ragazzina giovane giovane, piccola e magra da far paura, dall'aspetto un po' dimesso. La pelle diafana, il viso privo di qualsiasi traccia di trucco, un sorriso timido, i capelli lisci come spaghetti e un abbigliamento alla moda, ma indossato con la noncuranza di chi poggia gli abiti smessi della giornata sull'"uomo morto". Non che non fosse curata nell'aspetto, solo che lo era con la negligenza di chi non si preoccupa di essere giudicata per la sua apparenza esteriore. E infatti, a guardarla non le avresti dato un soldo bucato, ma se poi ti fermavi a scambiare quattro chiacchiere con lei durante la pausa caffé o a pranzo a mensa, scoprivi una sensibilità e un intelletto del tutto inaspettati. Aveva una incredibile capacità di percezione psicologica ed era in grado di ritagliarti un profilo della tua personalità che persino tu ignoravi, con la stessa precisione con cui una sarta ritaglia un cartamodello.
Due erano le cose che più le piacevano nella vita: i bambini e i gatti. Per questi ultimi aveva sempre pronta una ciotola di cibo, di latte o acqua, una carezza, tanto che i colleghi non lesinavano gli sfottò alle sue spalle. "La gattara" la chiamavano, ma con l'ironia tipica di chi non sa quanto possano essere consolatori gli strusciamenti e le fusa di un gatto di cui hai saputo conquistare la fiducia.
Un giorno anch'io mi trovai fatalmente a parlare con lei di gatti. A quel tempo sostenevo con fermezza e convinzione di non sopportarli. "Sono diffidenti, egoisti ed opportunisti" continuavo a ripetere, secondo un pregiudizio fin troppo diffuso tra coloro che mai hanno avuto l'occasione di dividere il loro spazio con un felino domestico. "Per carità! non farei mai del male ad un gatto e condanno chi gliene fa, però loro per la loro strada ed io per la mia!"
"Tu non odi i gatti", mi rispose Angela, ed io, con un sorriso tra il sardonico e divertito, "ah no? e che ne sai?"
"Perché all'origine del tuo senso di repulsione, o di quello che credi sia un senso di repulsione, in realtà c'è la teoria dei poli simili che si respingono."
"E cioè, cosa vorresti dire? che i gatti mi sono antipatici perché sono come loro?!?"
"Brava! è esattamente ciò che intendo!"
Me ne andai sorridendo e scuotendo la testa per quel maldestro tentativo di introspezione psicologica, provando anche una punta di commiserazione per quella ragazzina che credeva di saperla lunga su una persona con cui non aveva scambiato più di poche parole tra un piatto di rigatoni al sugo e una porzione d'insalata. Non parlammo mai più di gatti, ma la verità fu che quella frase pronunciata da Angela mi lasciò un marchio impresso a fuoco sul cervello.
Il tempo passò, e un bel giorno Angela venne nel mio ufficio. "Sto facendo il giro di tutti i colleghi per salutarvi: ho dato le dimissioni. Ho vinto il concorso magistrale e finalmente vado a fare il lavoro per cui ho studiato tanto, e starò coi bambini, come ho sempre sognato!" e mentre lo diceva, aveva una luce particolare che le brillava negli occhi e un sorriso luminosissimo: era felice, e quella felicità quasi la trasfigurava e la faceva sembrare una persona diversa, più serena e ottimista. L'abbracciai e le augurai ogni bene, e quella fu l'ultima volta che ci vedemmo. Ma le parole di Angela continuarono a risuonare nella mia testa come le note basse dalle casse di uno stereo, finché un bel giorno non mi soffermai a pensare. "Diffidente? bé sì, un po' lo sono, di tutto ciò che è nuovo e finché non mi sento a mio agio... e d'altronde, chi non lo è, almeno un pochino? Solo gli incoscienti! Egoista? naaaaaa... è solo che quando mi va di starmene per i fatti miei, preferisco che gli altri mi lascino in pace! Opportunista? certo, dove c'è da prendere, prendo a piene mani, soprattutto da chi ha da offrirmi sapere, saggezza e buon senso, ma a chi si mostra generoso con me metto a disposizione con altrettanta generosità tutta la ricchezza interiore che possiedo, che non sarà tantissima, ma è sempre più di niente."
E fu così che incominciai a guardare i gatti con occhi diversi: diffidenti finché, con pazienza e caparbietà, non riesci a conquistare la loro fiducia; amanti gelosi dei loro spazi e dei loro momenti di isolamento; sempre alla ricerca di un po' di cibo e una carezza, ma pronti a mostrarti la loro gratitudine saltandoti in grembo o leccandoti il naso mentre stai a dormire. Dopotutto Angela aveva ragione: in fondo, anche io sono un po' gatta e allora, siccome ogni regola ha la sua eccezione, finalmente misi da parte la mia antipatia per i gatti che, come capii in seguito, non era un'antipatia che mi sgorgava dal cuore, ma era stata costruita con tutti i pregiudizi di cui mi avevano riempito la testa, e iniziai con loro un nuovo rapporto di beneficio reciproco: non più "poli simili che si respingono" ma, in barba a tutte le leggi della fisica, che si attraggono per non staccarsi più!
Mi chiedo oggi che fine abbia fatto Angela. Vorrei tanto incontrarla di nuovo, innanzitutto per dirle che aveva ragione, e poi per chiederle se è felice e se le piacciono ancora tanto i bambini e... i gatti! Chissà, forse un giorno mi metterò alla sua ricerca e la chiamerò... quella piccola ragazzina insignificante, ma con una grande capacità di scrutare dentro le persone!